Se chiedete ad un napoletano che cos’è una coviglia, molto probabilmente vi guarderà con l’aria un po’ sorpresa, meravigliato del fatto che qualcuno non conosca questo semifreddo artigianale tipico della tradizionale pasticceria napoletana. Beh, ammetto, io ero tra quelli che non l’avevano mai sentita nominare, fino a qualche tempo fa… E ringrazio per questo il Calendario del Cibo Italiano: non si finisce mai di imparare! Ho studiato quindi, e mi sono messa all’opera per preparare le Coviglie Napoletane al Caffè, incuriosita da questa preparazione e soprattutto stupita dal fatto che, se prima le coviglie potevano essere gustate solo a Napoli, adesso sembra sia sempre più raro trovarne anche qui.
Sarà Mariella Di Meglio del Blog Mariella Cooking a parlarci di questi deliziosi semifreddi nel suo post ufficiale. Ma qualcosa ve lo racconto anch’io…
…E per questo devo ringraziare una giovane studentessa di Caserta, Anastasia, nella quale mi sono “imbattuta” su Instagram: cercando foto delle coviglie, ho scoperto il libro “Parole nella storia quotidiana” di Nicola De Blasi (accademico e docente di linguistica presso l’Università “Federico II” di Napoli), nel quale avevo appena scoperto che vi era un intero capitolo dedicato a questo semifreddo. Ho contattato Anastasia, che sul suo profilo aveva pubblicato una foto di questo libro studiando per un esame, e lei, senza neanche conoscermi, è stata così gentile da inviarmi le foto di tutta la parte dedicata alle coviglie… Anastasia, se mi leggi, grazie, sei stata un vero tesoro… La tecnologia permette cose grandi oggi, ma è la disponibilità delle persone che muove le montagne!
Le coviglie sono dei “quasi gelati”, o meglio dei semifreddi, che venivano venduti principalmente a Mergellina, una zona della città di Napoli, nel quartiere Chiaia. Lo studio di De Blasi sull’origine etimologica della parola “coviglia” sottolinea il legame di questo semifreddo con i contenitori in cui viene servito (“bicchieri o coppe di metallo”, come si legge nel libro “La cucina della Campania” di Anna e Piero Serra, 1980), che lo caratterizzano più di ogni altra cosa: egli, infatti, ipotizza che il termine derivi dallo spagnolo “cubillo”, diminutivo di “cuba” (dal latino “cupa”, ossia tino, botte, barile), termine con il quale gli iberici indicano proprio un recipiente destinato a mantenere fresca l’acqua, con preciso riferimento ad una funzione che coincide appieno con quella dei “bicchieri o coppe di metallo” che si usano generalmente per conservare la coviglia. D’altra parte, non è raro incontrare ricette che traggono il loro nome dal contenitore in cui vengono tradizionalmente cotte, conservate o servite, così come non è raro trovare nel lessico napoletano parole di origine iberica, data la dominazione spagnola nel Viceregno di Napoli durante il Seicento. Sembra, tra l’altro, che proprio già a quell’epoca fossero diffusi questi recipienti per pasticceria o gelateria che davano il nome al loro contenuto, le “cubille”: il termine “coviglia” è quindi un iberismo entrato nel lessico di Napoli in quel periodo.
La peculiarità delle coviglie risiede proprio nella particolare coppetta che le contiene, o meglio conteneva: un tempo, infatti, esse venivano conservate e servite in bicchieri di alluminio, resistenti al freddo, che venivano chiamate “stufe”, ma oggi – discorso che vale per quei pochi che ancora le preparano – le coviglie sono servite per praticità in bicchieri di plastica.
In effetti, questi semifreddi sono quasi scomparsi dalle gelaterie artigianali napoletane che un tempo li preparavano. Addirittura, il termine “coviglia” non è presente neppure nei dizionari e nei vocabolari della lingua italiana. Secondo De Blasi, quest’assenza non è una semplice dimenticanza, ma è dovuta al fatto che la parola è diffusa solo in un’area geografica limitata (è sconosciuta al di fuori di Napoli) ed è presente soprattutto nella circolazione orale più che in quella scritta. Persino Matilde Serao (scrittrice e giornalista napoletana, fondatrice del quotidiano “Il Mattino”,) non menziona la coviglia nel suo “Il paese di cuccagna” del 1891, pur descrivendo in questo libro un tipo di contesto – un rinfresco familiare per una festa di battesimo – in cui sarebbe lecito aspettarsi, tra gli altri gelati citati (spumoni, formette, gramolate), un riferimento ad essa. De Blasi spiega questa mancata menzione come una scelta consapevole della scrittrice, fatta per evitare una forma che ella riteneva non comprensibile al di fuori di Napoli; tuttavia, può anche darsi che la coviglia sia in qualche modo “mimetizzata” tra gli altri semifreddi citati, come lo “spumone”, con il quale condivide la caratteristica di essere “metà crema e metà gelato” (ma nello spumone le due diverse componenti sono tenute ben distinte).
La voce “coviglia” si riscontra solo a partire dall’ultimo secolo, e soprattutto nelle memorie di coloro che hanno avuto la fortuna di assaggiarle. E’ il caso di Angela Frenda, napoletana, food editor de “Il Corriere della Sera” e responsabile del canale La Cucina del Corriere, che ricorda così questi deliziosi desserts: “la coviglia è il sapore del mio gelato da bambina. Mia madre lo comprava in una pasticceria di Mergellina, e appena a casa veniva conservato con sacro rispetto nel freezer. Erano bicchierini bianchi o di metallo, ciascuno di un colore diverso. Ma il sapore della coviglia, quello non lo dimenticherò più. A metà strada tra un gelato e un pasticcino…”. Molte persone che erano piccole qualche anno fa, ricordano con nostalgia l’inconfondibile tintinnìo dei bicchieri di metallo.
Nei secoli precedenti, la sola menzione che abbiamo delle coviglie è quella di Vincenzo Corrado, che nel suo “Della maniera di comporre sorbetti varj” del 1778 descrive la ricetta della “spuma di cioccolate”, da servire in vasetti che lui stesso chiama “cubiglie”.
A seguito degli studi di De Blasi, la parola è entrata in alcuni vocabolari di recente pubblicazione; il docente si augura che alla “rinascita” lessicale della parola faccia seguito anche una riscoperta del semifreddo stesso, oggi quasi dimenticato a causa della produzione industriale dei gelati e del mutare delle mode e dei gusti.
Ma com’è fatta, esattamente, la coviglia? Si tratta di una sorta di mousse gelata, un semifreddo meno spumoso del normale – contiene infatti, oltre alla panna montata e agli albumi montati a neve, anche tuorli – al gusto, tradizionalmente, di caffè o di cioccolato (anche se si sono poi diffuse altre versioni come quella alla nocciola o quella alla fragola). Il già citato libro “La cucina della Campania” riporta così la ricetta della coviglia al caffè: “Unite alla crema pasticcera [base tipica di quelli che sono tecnicamente definiti “semifreddi all’italiana”] del caffè ristretto. Aggiungete mescolando delicatamente la panna montata e colmate i bicchieri con questo composto, collocando al centro della superficie un chicco di caffè”. E proprio della coviglia al caffè – tra l’altro molto simile alla pànera, semifreddo al caffè tipico della città di Genova il cui nome deriva dalla contrazione dei termini “panna” e “nera”, per via del colore scuro che assume la panna quando viene unita al caffè – andiamo finalmente a gustarci la ricetta. Con un’ultima precisazione: conservazione in frigo o in freezer, non è chiaro dalle fonti che ho consultato, o meglio, i pareri in merito sono discordanti. Ma immaginandomi la consistenza di un pasticcino più che di un gelato, io ho optato per la conservazione in frigo: il risultato è un dessert freddo dalla cremosità unica… Credo però che la prossima volta che preparerò le coviglie (e accadrà presto, ve lo posso assicurare) proverò a conservarle in freezer, come dei veri semifreddi!
N.B.: nella ricetta si può utilizzare sia caffè preparato con la moka che caffè in capsule!
- 150 ml di caffè forte
- 160 g di fruttosio (o 200 g di zucchero)
- 150 ml di latte
- 4 tuorli + 3 albumi
- 20 g di farina
- 400 ml di panna fresca
- qualche chicco di caffè intero
- Per prima cosa, preparate il caffè con la moka, quindi versatelo ancora caldo in una ciotola e scioglietevi metà del fruttosio (o zucchero); lasciatelo intiepidire.
- In una casseruola capiente portate ad ebollizione il latte; nel frattempo, in una ciotola, sbattete con la frusta a mano i tuorli con il restante fruttosio (o zucchero), quindi versate a filo il latte caldo e, poca alla volta, la farina setacciata. Mescolate sempre con la frusta fino a che il composto non sarà liscio ed omogeneo, quindi trasferitelo di nuovo nella casseruola e portate ad ebollizione, mescolando di continuo; lasciate sobbollire per circa 5 minuti, sempre mescolando (io utilizzo la frusta a mano), fino a che la crema non si sarà addensata. Fate intiepidire.
- Nel frattempo, montate 200 ml di panna a neve lasciandola però morbida, e gli albumi, invece, a neve fermissima.
- Quando la crema sarà tiepida unitevi il caffè, amalgamate bene, quindi aggiungete con delicatezza la panna e gli albumi montati a neve, mescolando con movimenti leggeri dal basso verso l’alto affinchè il composto non si smonti.
- Suddividete la crema nelle coppette e ponetele in frigo per almeno 6 ore prima di servirle.
- Al momento di servire, montate a neve ferma i restanti 200 ml di panna, inseritela in una sac à poche e decoratevi la superficie delle coviglie; completate con qualche chicco di caffè e servite.
Bibliografia:
N. De Blasi, Parole nella storia quotidiana, 2009, Liguori
N. De Blasi, Profilo linguistico della Campania, 2006, Editori Laterza
M. Serao, Il paese di cuccagna, 1891, Avagliano Editore
J. C. Francesconi, La cucina napoletana, 1993, Newton Compton Editori
V. Corrado, Della maniera di comporre sorbetti varj, 1778, Napoli
A. Serra – P. Serra, La cucina della Campania, 1989, Edizioni Del Giglio
http://raccontidicucina.corriere.it/
http://www.cibo360.it/
Sara B dice
Approfondito, leggibile e interessante come sempre saretta… anch’io non avevo idea di cosa fossero le coviglie fino a pochi giorni fa! E poi la storia del contatto su instagram insegna tanto: questo pazzo mondo virtuale è molto più reale di quanto a volte immaginiamo 😉 un abbraccio!
pixelicious dice
Hai proprio ragione: dietro al virtuale, ogni tanto, si scopre anche tanta umanità! Anastasia è stata una bella scoperta, così come la coviglia, che presto ripreparerò! 🙂 Grazie di cuore dei complimenti e del tuo bel commento Sarina! Bacioni
Gianluca Iovine dice
Va tributato un omaggio e un ricordo alla gelateria di via Abate Galliani, quel Remy Gelo che per decadi a Napoli ha voluto dire coviglie, spumoni, tronchetti, cremolate, in un’epoca in cui erano già misconosciuti. Oggi in quegli stessi locali qualcosa è rimasto ma il vecchio Remy Gelo non c’è più. E una delle ultime tracce della Belle Epoque napoletana è svanita per sempre.
pixelicious dice
Grazie per questa tua testimonianza!